Il ritorno dei vitigni rari (e dimenticati) dell’Emilia
Non solo Lambrusco e Sangiovese.
L’Emilia, conosciuta in tutto il mondo come la “food valley italiana”, è una terra così ricca di prodotti da far perdere la testa a qualsiasi buongustaio, dai salumi come la mortadella, zampone, coppa, culatello e prosciutto (solo per citarne qualcuno), alla pasta all’uovo che cambia nome in base alla città in cui si mangia: per cui abbiamo gli Anolini a Parma, i Tortellini a Modena e i Cappelletti a Reggio Emilia.
Un’invitante paniere ricco anche di tigelle, crescentine, gnocco fritto, tagliolini, ravioli, lesso e bollito, che in questa terra raggiungono delle punte qualitative invidiate in tutto il mondo e che ben si sposano con i vini frizzanti della regione, dal Lambrusco al Pignoletto, dal Gutturnio all’Ortrugo, ma siamo sicuri di conoscere tutti i vitigni di questa zona?
Siamo stati a trovare Claudio Plessi, cordiale viticoltore, famoso per aver trasformato la propria vigna in un museo ampelografico, andando negli anni a riscoprire antiche varietà ormai in disuso. Un viaggio piacevole, accompagnato da una degustazione per meglio “comprendere” i diversi protagonisti. Un testing all’insegna dell’informalità e cordialità aperto dalla Spergola, vitigno a bacca bianca, originario della zona di Scandiano, appartenente alla stessa famiglia della Vernaccia di Oristano. Ottimo per base di spumante metodo classico.
Proseguiamo con il Ruggine, il cui termine sembrerebbe derivare dal fatto di avere una buccia lentigginosa. Seppur sconosciuto ai più è una piacevole scoperta; infatti, al naso si apre a dolci note di miele di castagno lasciando dietro di sé un delicato ricordo di rosmarino e timo. Consiglio? Prima sorseggiare, poi scolare.
Dopo una piccola pausa per far spazio ad aneddoti e successive impressioni vengono stappati due diversi trebbiano, il primo detto di Spagna, tipico di Modena e parente dell’Albana, è stato per la sua poca produttività dimentico dalla maggioranza dei produttori. Un vero peccato perché il calice è un vivace tripudio di agrumi e fiori bianchi. Al palato è avvolgente, aromatico ed esotico. La seduzione fatta semplicità.
Il secondo bicchiere è un Trebbiano modenese (in dialetto Tarbian), originario della zona di Carpi, che, come il precedente, dona emozioni rare e complesse. Frutta secca e crema pasticcera incantano e tentano ad una bevuta successiva.
Terminato il primo atto, è arrivato il momento dei rossi guidati dall’uva Tosca, che in etichetta è menzionata come Montanera per un’insensata disputa persa contro la cantina Tasca d’Almerita. Nasce a 800 metri s.l.m. e per questo entrato nell’olimpo delle “varietà di montagna”.
Altro protagonista di questa esperienza è la Sgavetta, una delle poche varietà che possono far parte dei vitigni complementari (max 15%) per la denominazione Grasparossa. Noi lo abbiamo degustato in purezza, riscontrando aromi di rovo, mora e sottobosco. Polpa, sapidità e freschezza. Trino ed unico.
Concludiamo con il Festasio, un’uva così scura che il calice si tinge di un rosso scuro tendente all’inchiostro. Recuperato da una collina sopra Marano sul Tamaro nel borgo Festà, si apre a profumi di frutta rossa matura e spezie scure.
Vini ancestrali, gentilmente addomesticati da una sapienza contadina capace di produrre bottiglie stilisticamente perfette, dove gli aromi sono puliti e schietti. Le puzze lasciamole al concime!
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